martedì 28 maggio 2013

COS'E' LA DEPRESSIONE POSTPARTUM

L’arrivo di un bambino viene considerato nell’immaginario sociale come un momento in cui bisogna essere sempre felici… perché allora può capitare che la neomamma si senta triste, nervosa, pianga facilmente…?

Dopo il parto può capitare che vi siano delle alterazioni dell’umore da parte della donna che è appena diventata mamma, a volte si tratta di baby blues,  altre volte di vera e propria depressione.


Cosa significa “baby blues”?

Il “baby blues” o “maternity blues” è  la più comune sindrome del puerperio: consiste in un periodo di alterazione emotiva di lieve entità che insorge dopo il parto e può durare alcuni giorni o alcune settimane. E’ dovuto principalmente ai cambiamenti nel livello ormonale, a cui si aggiungono fattori stressogeni quali la stanchezza psicofisica connessa al parto e i cambiamenti che avvengono nel proprio contesto sociale di appartenenza e circa la propria quotidianità.



Il baby blues presenta sintomi analoghi a quelli della depressione postpartum: tristezza, nervosismo, sbalzi d’umore, pianto, ansia…

La differenza è che si caratterizza per una remissione spontanea.

E’ importante però che la donna e la sua rete di riferimento conosca tale manifestazione sintomatica, in modo da affrontarla al meglio.



Quando si parla invece di depressione postpartum?

Con “depressione postpartum” si intende un vero e proprio disturbo depressivo, che si colloca temporalmente proprio nel postpartum, può essere connotato da diversi livelli di gravità e riguarda circa l’11-13% delle donne.



Quali sono i principali sintomi della depressione postpartum?

Innanzitutto è importante considerare che vi è un ampia casistica di sintomi e non è necessario che siano tutti presenti per parlare di depressione postpartum. Inoltre, il quadro sintomatico deve determinare un certo grado di compromissione del funzionamento globale della donna.

Una donnna potrebbe quindi mostrare:

  • Umore depresso, tristezza, pessimismo
  • Pianto persistente e immotivato
  •  Irritabilità 
  •  Senso di solitudine e di disperazione (può capitare di sentirsi sole anche se “oggettivamente” non lo si è, ma si hanno più persone vicine)
  • Disinteresse in varie attività
  • Affaticamento e mancanza di energie
  • Agitazione o rallentamento psicomotorio
  • Scarsa capacità di concentrazione, difficoltà nel prendere decisioni (anche decisioni quotidiane o legate alla cura del neonato)
  • Ansia
  • Autosvalutazione, bassa autostima, sensi di colpa, senso di inadeguatezza (per esempio rispetto al proprio ruolo genitoriale e alle competenze come madre)



Quali eventi stressogeni possono aumentare il rischio di depressione postpartum?

Si parla di “fattori di rischio”, ovvero condizioni che potrebbero aumentare la vulnerabilità rispetto alla depressione post partum:


  • Fattori biologici: cambiamenti ormonali e fisici correlati al parto
  • Fattori ostetrico-ginecologici: complicanze in gravidanza o nel postpartum, storia personale di pluriabortività, difficoltà circa l’allattamento… E’importante tenere presente che non si tratta di una relazione cuasa-effetto per cui se una donna vive una di tali esperienze, allora svilupperà la depressione postpartum. Una determinante importante è il vissuto soggettivo, il significato emotivo e personale che la donna attribuisce a tali eventi; questo spiega perché donne che hanno vissuto eventi simili, mostrano un vissuto emotivo differente.
  • Fattori psicologici: giocano un ruolo importante. Per esempio, una donna che ha una storia personale o familiare di disturbi psicologici sarà più vulnerabile rispetto ad eventuali esiti depressivi. Un fattore determinante è costituito dalla personalità della donna: una persona con alta autostima, tendenza all’ottimismo e buone capacità di coping (si tratta di quelle capacità che ci consentono di affrontare con efficacia anche le situazioni più avverse), sarà meno a rischio di vissuti depressivi.
  • Fattori sociali: recenti eventi di vita stressanti (lutti, malattie, trasferimenti, difficoltà economiche…), difficoltà nel rapporto di coppia, scarso supporto emotivo e concreto dalle persone vicine (spesso ciò che conta non è l’aiuto ricevuto in termini oggettivi, ma il vissuto personale della donna rispetto a quanto si sente o meno supportati).


Quali fattori possono diminuire la probabilità di sviluppare una depressione postpartum?

Esistono dei fattori “di protezione”, che si intersecano con i fattori di rischio e possono ridurre la vulnerabilità rispetto  all’emergere della depressione postpartum, quali:

  • Supporto da parte delle persone vicine (parenti, amici…) o, comunque, la percezione di essere sufficientemente aiutate sia a livello concreto sia a livello emotivo 
  • Relazione stabile e positiva con il partner 
  • Buona condizione lavorativa, economica 
  • Buona autostima, ottimismo, buona capacità di far fronte agli eventi (anche a quelli stressanti)


Cosa fare se si dovessero riscontrare i sintomi di una depressione postpartum?

A volte capita che la donna non si renda completamente conto delle difficoltà emotive che sta affrontando, è proprio per questo che la rete di riferimento gioca un ruolo importante, per porsi come fattore di protezione e di aiuto.

Innanzitutto è importante accogliere tutti i vissuti della donna, anche quelli negativi, affinchè senta di potersi esprimere liberamente, senza correre il rischio di essere giudicata e trasmettendo la sensazione che non è l’unica a provare quei vissuti in un periodo così delicato.

Inoltre, è fondamentale aiutarla anche a livello concreto.



Tuttavia è importante anche rivolgersi a uno specialista, a uno psicologo, in modo da avere uno spazio e un tempo dedicato ad affrontare questi temi e capire il percorso di supporto che meglio possa aiutare la donna.  Altrimenti , è possibile compiere un primo passaggio rivolgendosi al proprio medico, così da essere indirizzati verso una struttura o un professionista.

E’ però importante farsi aiutare, poiché una depressione postapartum non trattata può avere ricadute sul piano individuale per la donna e a livello diadico e familiare rispetto alle interazioni mamma-bambino e alla relazione con il partner.

Dott.ssa Nicoletta Bassani

venerdì 17 maggio 2013

ATTACCO DI PANICO...SI PUO' SUPERARE?

COS’E’ L’ATTACCO DI PANICO?
L’attacco di panico si colloca all’interno dei disturbi d’ansia. È infatti caratterizzato da un episodio acuto d’ansia accompagnato da una serie di sintomi fisici e da pensieri catastrofici.
Si tratta di solito di attacchi improvvisi e quindi ancora più spaventanti per chi li sta vivendo, che durano dai 10 ai 20 minuti. Sembra un breve periodo, tuttavia provocano un disagio molto intenso, una esperienza che può modificare e influenzare la vita di chi l’ha provato.
Una persona che ha avuto un attacco di panico si spaventa molto e ciò provoca prima di tutto il terrore di riprovare tale esperienza in futuro e crea in breve tempo la sensazione di ansia in situazioni in cui la maggior parte delle persone non proverebbe malessere. Questo, ovviamente, è molto debilitante per chi si trova in questa condizione.
Chi soffre di attacchi di panico ha spesso anche altre fobie difficili da gestire: uscire da soli o stare in casa da soli può diventare problematico, affrontare esperienze per tutti serene può diventare un’impresa, usare mezzi di trasporto pubblici può essere accompagnato dalla paura di star male lontano da casa.
QUALI SONO I SINTOMI?
I sintomi che vengono riportati sono: respiro affannoso, palpitazioni, vertigini, formicolii alle mani o ai piedi, senso di costrizione o dolore al torace, sensazione di soffocamento o mancanza d’aria, sensazione di svenimento, sudorazione, tremori, vampate di caldo o di freddo, bocca asciutta, nausea o nodo allo stomaco, debolezza alle gambe, annebbiamento della vista, tensione muscolare, fatica a pensare o a parlare, paura di morire, di perdere il controllo. Perché si possa parlare di attacco di panico son
o necessari almeno 4 di questi sintomi elencati.
QUAL E’ LA DOMANDA TIPICA DI CHI SOFFRE DI ATTACCHI DI PANICO?
Chi ha questo tipo di problema e viene nel mio studio porta di solito una domanda ben precisa: “Riuscirò a tornare come prima? Passeranno prima o poi?”
Con questa domanda, spesso, la persona ci chiede di aiutarla e eliminare tutte quelle sensazioni fisiche spiacevoli.
QUALI SONO I PRINCIPALI OBIETTIVI DA RAGGIUNGERE?
Il primo obiettivo diventa quindi quello di aiutare il paziente a capire che questi sintomi fisici non sono realmente pericolosi, ma sono solo una conseguenza dell’ansia e quindi tutti i pensieri catastrofici non accadranno veramente. Questa è una consapevolezza che le persone non acquisiscono in modo immediato, ma aiuta sicuramente a interrompere il circolo vizioso dell’ansia. Esistono delle tecniche mirate grazie alle quali il paziente può gestire al meglio le sensazioni fisiche spiacevoli.
Il secondo passaggio importante è quello di comprendere che le cause di questi attacchi di panico non sono mai riconducibili a fatti obiettivi e concreti, ma si rifanno a vissuti molto più profondi legati molto spesso ad una dimensione relazionale. Emerge quindi la necessità di esplorare la dimensione relazionale perché da li si sono formate delle parti di noi stessi di cui non abbiamo consapevolezza.
Curioso è infatti notare che la parola ansia deriva da angere che vuole dire proprio “stringere” e ci fa venire in mente sicuramente i legami stretti che abbiamo con le figure per noi più importanti.
Ecco che allora il sintomo diventa per noi una guida, una bussola che ci permette di orientarci e di esplorare la storia della persona per comprendere il significato della vera crisi. Ad esempio tali sintomi emergono a seguito di un malessere che la persona vive nelle sue relazioni significative o riguarda le difficoltà di svincolo dai propri genitori. Da qui allora l’attacco di panico rappresenta un messaggio non solo per chi ne è portatore, ma per tutto il contesto relazionale nel quale è inserito.
L’aiuto di un professionista permette di capire il senso del sintomo che stiamo vivendo quotidianamente. Nessun sintomo si scomoda mai per niente, quindi vale la pena ascoltarlo e capirlo, per poi curarlo e poterlo abbandonare.
Dott.ssa Laura Prada

sabato 11 maggio 2013

MAMMA E PAPA' SI SEPARANO...IMPORTANTE SPIEGARLO AI FIGLI


I figli hanno bisogno di ricevere informazioni corrette e accurate per poter capire la situazione in cui sono venuti a trovarsi.
Dare questo tipo di informazioni al figlio rappresenta un compito particolarmente impegnativo per i genitori, che spesso tendono a non affrontarlo nella convinzione che “i bambini sono troppo piccoli e fragili per sopportare il peso di tali problemi” o che “ le questioni tra mamma e papà riguardano solo loro” (Anna Oliverio Ferraris, 2000). 
Studi più recenti sottolineano come circa l’80% dei figli del divorzio non riceve una preparazione adeguata alla disgregazione familiare, né viene dettagliatamente informato su ciò che sta accadendo alla sua famiglia.  I figli, in altre parole, vengono lasciati spesso soli ad affrontare uno degli eventi più stressanti che possa colpire il nucleo familiare. Senza informazioni essi non possono comprendere e, con delle mezze verità dette loro in modo veloce, iniziano facilmente a costruirsi fantasie. È possibile che un bambino non informato arrivi a pensare che la  madre lo disprezzi, che il padre non sia orgoglioso di lui, o a sentirsi inferiore perché nessuno ha ritenuto che valesse la pena dirgli la verità su quanto stava accadendo.
Non esiste un modo giusto in assoluto per dare queste informazioni, molto dipende dai rapporti instaurati all’interno del nucleo familiare prima della separazione.
Non bisogna inoltre dimenticare che nei bambini è sempre viva la paura di essere abbandonati e il divorzio rende reale questa paura.
Il timore dell’abbandono diventa particolarmente intenso se nella coppia vi è una forte conflittualità e i genitori non comunicano ai figli la loro decisione, non li rassicurano sul fatto che continueranno a vederli, non mostrano di avere il controllo della situazione. Si tratta di un timore che può ingigantirsi o affievolirsi a seconda di come i coniugi in via di separazione si comportano e comunicano con i figli, una paura che può facilmente aumentare quando i genitori passano il tempo a litigare fino alla disperazione, senza informarli di ciò che sta accadendo intorno a loro.
I figli hanno bisogno di informazioni che permettano loro di capire come stanno le cose realmente. Perché per i bambini, grandi o piccoli che siano, non essere adeguatamente seguiti e preparati agli eventi che precedono e seguono la separazione dei propri genitori, può rappresentare un rischio per la loro crescita e il loro sano e armonioso sviluppo psicologico e affettivo (Anna Oliverio Ferraris, 2001).
Dott.ssa Laura Prada

sabato 4 maggio 2013

Fratellino o sorellina in arrivo: come far fronte alla gelosia dei propri figli?


L’arrivo in famiglia di un nuovo bambino è sempre un momento delicato, non solo per i genitori, ma anche per gli altri figli.
Spesso i genitori si chiedono come i propri figli reagiranno all’arrivo di un fratellino o di una sorellina e come poter far fronte ad una eventuale gelosia.

Per prima cosa è importante tenere presente che provare gelosia per l’arrivo di un fratellino è normale, si tratta proprio di una fase naturale di adattamento che il bambino attraversa.

Non tutti i bambini esprimono e manifestano questo vissuto emotivo allo stesso modo: vi sono bambini che lo fanno in modo di esplicito e altri in modo meno diretto; la cosa importante è che il bambino senta di poter esprimere anche questo sentimento e che si senta accolto dagli adulti di riferimento.
 
Quali potrebbero essere i segnali di una gelosia?
  • Rabbia espressa apertamente verso i genitori o il fratellino, tramite parole o gesti: ad esempio accusando il genitore di essere cattivo o dicendo di non volere il fratellino oppure agendo comportamenti aggressivi .
  • Capricci: alcuni bambini diventano più capricciosi poiché è un modo per “mettere alla prova” il genitore e il suo affetto.
  • Ricerca di attenzione: alcuni bambini attuano comportamenti mirati ad attirare sempre di più l’attenzione su di sé, in un momento in cui spesso è focalizzata sul nuovo arrivato, ad esempio da parte di parenti, amici…
  • Regressioni comportamentali: il bambino potrebbe ricominciare a compiere comportamenti che aveva abbandonato da tempo e mostrarsi meno autonomo. Per esempio potrebbe richiedere il ciuccio o di essere imboccato, oppure potrebbe ricominciare a fare la pipì addosso quando invece aveva smesso.
  • Esibizione di comportamenti da grande: per evidenziare la propria differenziazione rispetto al nuovo arrivato.
  • Diminuzione del profitto scolastico: alcuni bambini potrebbero mostrare cambiamenti nel contesto scolastico, per esempio peggiorando nei voti.

E’ importante anche considerare che bambini di diverse età possono esprimere diversamente la gelosia:
  • i bambini più piccoli (1-3 anni) spesso manifestano più apertamente i sentimenti di gelosia attraverso il comportamento, per esempio adottando condotte aggressive verso il fratellino. Potrà capitare di vedere che il bambino picchi il fratellino o lo abbracci stringendolo in modo troppo forte…  Gli adulti di riferimento è bene che tengano presente che si tratta comunque di un aspetto positivo, anche se spesso è difficile considerarlo come tale, poiché significa che il bambino sa di poter esprimere quello che prova e sa che verrà capito dal genitore. Inoltre, un comportamento manifesto di gelosia consentirà anche al genitore stesso di comprendere con chiarezza come sta il suo bambino. 
  • I bambini più grandi, invece, potrebbero manifestare la propria gelosia in modo meno esplicito. Ciò non significa che non provino questo sentimento, ma nel tempo hanno imparato che esprimere apertamente la gelosia “non va bene”, viene letto in modo negativo dagli adulti di riferimento che potrebbero reagire sgridandoli. Per questo spesso i bambini più grandi tendono a non attuare condotte aggressive come picchiare il fratellino, ma a trattenere l’emozione dentro di sé, a favore di condotte regressive o di ricerca dell’attenzione.

Come affrontare la gelosia del proprio bambino? 
Ecco alcune indicazioni da tenere presente in 3 diversi momenti:
  • Durante la gravidanza: preparare il bambino all’arrivo del fratellino. E’ importante che siano proprio i genitori a dare al bambino la notizia della gravidanza e a prepararlo sia all’evento del parto (e quindi alla lontananza dalla mamma quando sarà in ospedale) sia all’arrivo del fratellino. E’ importante dare spiegazioni e rispondere alle domande che vostro figlio vi pone, utilizzando un linguaggio adatto all’età del bambino in modo che possa comprendere al meglio ciò desiderate trasmettergli.
  • Al momento del parto: portare il bambino in ospedale a trovare la mamma e conoscere il fratellino, in modo che possa rassicurarsi vedendo che la mamma sta bene e conoscere in prima persona il luogo dove starà la mamma per qualche giorno e cosa vi succede. Questo è importante affinché abbia informazioni corrette per rendere le sue fantasie più realistiche.
  • Una volta a casa: essere pazienti, rassicurare il figlio maggiore, rispondere alle sue domande, mantenere le sue abitudini e le regole che già seguiva, accogliere tutti i suoi vissuti (anche quelli negativi), coinvolgerlo nell’accudimento e nell’interazione con il fratellino, mantenere spazi e momenti dedicati solo a lui e, se possibile, si consiglia di non far coincidere cambiamenti significativi con l’arrivo del fratellino (es. inserimento all’asilo…).      

Favorire fin da subito il rapporto tra fratelli è molto importante perché costituisce il primo “laboratorio sociale” in cui i bambini imparano a relazionarsi con i pari e acquisire abilità sociali importanti, quali la collaborazione, la condivisione, la gestione di conflitti…
Inoltre, il rapporto tra fratelli acquisisce un ruolo importante anche con la crescita, in quanto anche da adulti i fratelli possono essere punto di riferimento l’uno per l’altro.

Dott.ssa Nicoletta Bassani

venerdì 3 maggio 2013

E TU...CHE GENITORE SEI?



Lo stile educativo che i genitori adottano nei confronti dei figli influisce fortemente sul loro sviluppo sociale, emotivo e intellettivo. Molto poi contano anche le caratteristiche comportamentali della prole. Anche i figli hanno le loro reazioni, i loro temperamenti, i loro atteggiamenti che portano il figlio a sottrarsi ai genitori o spingono questi ultimi a modificare il loro stile educativo.
Quali sono i principali stili educativi?
STILE AUTORITARIO: si tratta di genitori severi che stabiliscono regole senza dare troppe spiegazioni e quasi mai tengono presente le opinioni dei figli. Nella gestione della loro genitorialità sono molto  numerosi i “no” che vengono dispensati  e spesso le punizioni sono severe. Parecchie volte questi genitori usano castighi, intimidazioni come strumenti di controllo e la disobbedienza viene vista come una minaccia all’autorità. Sono genitori che si aspettano che i figli obbediscano senza discutere minimamente con loro. I figli crescono così in un clima abbastanza freddo e possono sviluppare due modalità comportamentali: ribellione oppure adeguamento diligente alle aspettative di mamma e papà. 
STILE PERMISSIVO: si tratta di genitori che non danno particolare importanza alle regole, cedono facilmente alle richieste dei figli mancando spesso nella loro posizione di guida. Quando cercano di farlo appaiono troppo deboli per farsi ascoltare. I figli quindi crescono senza un orientamento o una guida forte e ciò li spinge a realizzare all’esterno quel bisogno di coerenza che in famiglia non trovano. Il rischio maggiore dello stile permissivo è quello di sfociare nella trascuratezza.
STILE IPERPROTETTIVO: si tratta di genitori coerenti, affettivamente vicini ai loro figli, però particolarmente ansiosi che possono col tempo trasmettere insicurezza. Questi genitori sono consapevoli dell’importanza dell’educazione e sono capaci di stabilire dei legami forti , ma allo stesso tempo sono preoccupati che potrebbe accadere qualcosa di brutto ai loro figli in loro assenza. I figli, in questo modo,  non imparano a orientarsi da soli, a organizzarsi, a crescere sicuri e fiduciosi perché non è mai stata concessa loro quell’autonomia necessaria per imparare a fare da soli. Anche qui i ragazzi possono prendere due strade differenti: ribellarsi oppure adeguarsi formando con il genitore un rapporto simbiotico caricandosi delle loro ansie e delle loro aspettative. Nel tempo questa iperprotezione può creare quello che la Olievirio Ferraris chiama “dittatore domestico”, cioè figli che abitutati a essere seguiti, serviti e riveriti pretendono che il genitore soddisfi ogni loro capriccio. 
STILE AUTOREVOLE: si tratta di genitori che richiedono rispetto e stabiliscono regole adatte all’età, alle caratteristiche dei figli e quindi rispettabili. Questi genitori non sono invadenti e hanno bene in mente i bisogni e i desideri dei loro figli che si educano all’autonomia e all’imparare dai propri errori. I bambini di genitori autorevoli risultano in media i più capaci: hanno più fiducia in se stessi, sono socialmente responsabili, contenti, capaci di auto controllarsi, capaci di stare in mezzo agli altri e cooperare.
Per concludere è utile dire che, come sempre quando si cerca di categorizzare, vengono estremizzate le caratteristiche. Alcuni genitori, quindi, potrebbero ritrovarsi in più categorie perché la realtà non è solo fatta di bianchi e di neri…ma c’è tanto colore in mezzo. 

E tu…che genitori ti senti di essere?
Quali sono le maggiori difficoltà che incontri quotidianamente in questa difficile missione genitoriale?
 
Dott.ssa Laura Prada
BIBLIOGRAFIA:
·          Baumrind D. “Current pattern of parental authority”
·          Montessori M. “La scoperta del bambino”
·          Oliverio Ferraris A. “La forza d’animo”
·          Oliverio Ferraris A.; Togni M. “Genitori e figli: una questione di stile”